Nei secoli scorsi lavare gli indumenti significava semplicemente usare acqua e sapone (a volte fabbricato in casa), senza l’intervento di macchinari specifici. Il lavaggio dei “panni” spesso avveniva fuori casa: in ogni paese o città esisteva un lavatoio comune che le donne utilizzavano per la pulizia degli indumenti, il tutto manualmente. Abbiamo notizia della prima lavanderia pubblica nel 1825, quando Jolly Belin a Parigi, aprì un esercizio dove era possibile portare gli indumenti da lavare e lo faceva con l’immersione di questi ultimi in bagni di trementina e poi facendoli asciugare al sole. Le prime lavanderie chimiche risalgono al 1950, quelle che possono essere intese come le moderne lavasecco. In verità poco avevano a che vedere con le lavanderie moderne: erano equipaggiate con macchine rudimentali che in comune con le moderne avevano solo il solvente che si utilizzava: il percloroetilene.
Ovviamente l’uso alla lavanderia andò aumentando sempre più e di conseguenza anche la dispersione di percloro e solventi nell’ambiente aumentò in maniera direttamente proporzionale. La dispersione poteva avvenire sia perché le sostanze fuoriuscivano accidentalmente dai contenitori (non sigillati come oggi) o dalle vasche non isolate adeguatamente e/o perché le sostanze in questione venivano eliminate in maniera approssimativa e inadeguata con l’immissione degli scarti di lavorazione in discariche non autorizzate o tra i rifiuti urbani o addirittura in pozzi non isolati e quindi direttamente nelle falde acquifere.